Passati gli anni sessanta,
molti anni dopo,
Vito Taburno cantò:
"I locali notturni non mi mancano…
In natura sono un essere locale e,
di natura, sono abbastanza notturno,
quindi non ho altro da dire…
Ah! Sì, i locali notturni,
sì, quei cavalli di Troia
a temperatura intestinale,
quegli interni di ippopotamo
per rane e colibrì che saltano
e svolazzano. E, intorno, fuori:
sciacquio, sciacquio, sciacquio...
A voi mancano, si sente…
A voi, musicisti appassiti,
a voi scrittori ammosciati...
A voi manca quel pubblico
che sembra distratto. Lo è anche:
quelle bocche... ampie e svasate
da emissioni esclamative,
o sottili come beccucci
conficcati in un fiore...
Pensare a altro, questo
è il pensiero... La natura
umana è sempre tentata
dal virtuosismo: lo sbadiglio
annoiato della belva
e contemporaneamente
la petulanza dell’uccellino
nettatore che intanto
si intromette nelle fauci...
un tutt’uno di tedio
e di invadenza tutt’assieme.
Ma solo qui, quando io canto,
le donne e gli uomini
non sono altrove con
la testa e il corpo.”