Presero un tavolo

17.08.2013 19:54

Presero un tavolo, lei e il fidanzato, una sera.
La sera dopo tornò sola
perché la sera prima vollero salutarmi
prima di lasciare il locale.
Mi salutavano in tanti, è un vantaggio:
dopo un po' i clienti
parlano tra loro e io posso – nella confusione
che fanno – appartarmi.
Non in un altro posto, sempre lì,
nella confusione.
Con lei lo feci. Le voci di tutti rendevano
impercettibili le nostre.
Così, la sera dopo, tornò sola e aspettò
la notte. Finii di cantare.
Mangiammo qualcosa, seduti a quello
che era stato il suo tavolo.
Intorno a noi le pulizie della sala progredivano.
Il cuoco di quel locale
preparava sempre qualcosa per me, tenendomela
in caldo. Il rumore delle sedie
ribaltate sui tavoli e quello dei secchi spostati
con lo scopettone immerso
non davano fastidio, anzi incoraggiavano
la disinvoltura. Mangiammo,
bevemmo e poi restammo soli all'alba.
Avevo le chiavi del posto,
e il mio camerino era una piccola suite
al piano superiore
in cima a una scala di metallo a foglie e fiori,
ocra, giallo senape e verde matto,
una spalliera rampicante, che finiva ridondando su in alto
in un verziere strapiombante...
saliva, la scala, sul fianco di una parete concava
e poi convessa, un'onda a perpendicolo...
l'onda e la turgida eccitazione vegetale esprimevano
in pieno tutta la sentimentalità
verduresca e inflorescente del gangster
che si dedica all'intrattenimento...
erano l'involontaria esposizione delle sue debolezze,
più delle cravatte selvagge e spigolose
come jungle geometriche, graffianti e ruggenti
(solo il gangster ama
veramente la natura, della quale quella umana
è solo succhiatrice
con cannuccia e senza, con ghiaccio o liscia, previa
distillazione o spremitura dei bei frutti,
con adeguato sovraccarico per servizio, tavolo
e attrazione musicale)...
C'era lassù un pianerottolo e una porta
ma tutto era occultato
dal fittissimo verziere, dalle frasche
e dalle foglie tropicali,
alcune taglienti come spade e mannaie,
in ferro strabattuto, verniciato
a fuoco e fiamme... E sulla porta c'era scritto
in color zucca: Ingresso Vietato,
come fosse il nome del mostro che oltre la porta
masticava... ma là dentro
c'era un corridoio e tante porte
color rosso pompieriano
(ossia, secondo il gangster, rosso come
l'autobotte dei pompieri,
compresa la sirena sibilante nel colore)...
un vasto appartamento di palazzo:
stanze, stanzette,
sia timide sia sguaiate; e la mia suite
ossia camera da riposo,
salottino e bagno... le prime due porte oltre
l'entrata aprivano
agli uffici, che chiamavamo
l'ortomercato:
assunzioni e scritture (ero socio per un terzo
nonché cantante, quindi, dei tre, l'artista...
il terzo era contabile: a palmi, a spanne, a occhio
soppesando sui piatti delle palpebre...
l'altro, l'ho detto, il gangster fatto a gangster
ossia con la cravatta da sparata).
Tornando a noi che teneramente ci tiravamo
fuori dalla notte con le braccia...
Mi disse lei: “Se continui così ('così' erano i baci
tra le braccia), poi non so trattenermi,
mi conosco”. E mi trattenni io. Trasformammo
lo scontento suo e mio
in qualcosa che somigliava all'alba. Uscimmo.
Non eravamo già svegli,
eravamo ancora svegli. Così anche l'alba,
silenziosa e testarda,
non significava un risveglio ma qualcosa
di insistente: ogni giorno
(percepimmo) per un tempo nemmeno breve
l'alba si incanta, sta lì lì per prendere
la decisione di non andare avanti nel mattino,
di non continuare.
Lei e io siamo i soli a saperlo. Ad averla compresa,
l'alba. Questa è la storia.

E sapevamo benissimo che la sua frase  ('se continui così...')
era una procedura. Anche la mia sospensione dei baci.
Insomma seguimmo una procedura, formale, solo formale
e senza sostanza ossia entrammo nell'astrazione, quindi
nel paradosso: diventammo sensibili alla realtà esterna.
Non so a lei, ma a me succedeva molto raramente.
Realtà esterna: anche a parole, così, scrivendo,
non mi dice niente, mi pare spazio sprecato sulla pagina.
Dalla nostra realtà interna, la mia stanza nel locale,
uscimmo all'aperto e conoscemmo la realtà interna
dell'alba. La realtà è intima, molto intima.