Formiche rosse, farfalle nere

01.08.2017 18:43

Questo mi disse Malaparte quando sedetti al suo tavolo dopo aver cantato in quel locale etiopico:

 

«Sono un sorvegliato speciale, non sono un giornalista, sono uno scrittore, sono stato condannato, dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, alla galera e al confino,

ho sparlato di Balbo, l'ho diffamato, sono reo di infedeltà al regime.

Mi hanno dato questa possibilità, hanno rigirato la pena come una stoffa, che adesso mostra un disegno africano. Il confino è mutato in invio. Mi spediscono a mettere la testa a posto, in Africa, a fare il bravo ragazzo ossia il giornalista, l’inviato, così imparo a fare l’esiliato, forse. Così imparo a scrivere, ma io già so scrivere. Insomma, così imparo, imparo per il prima e imparo per dopo. Così imparo a sparlare, e poi imparo a diventare inviato, ma già lo ero: inviato al confino. Adesso sono inviato in Africa, inviato per conto di un giornale. 

E in Africa sono venuto anche per espatriare, forse, per raggiungere la Somalia francese, non so, starmene lì, aspettare. Non so, è un’idea, poi non so, vedrò.

Ho questo contratto con il Corriere della sera per quindici articoli dall'Etiopia sull'Africa bianca imperiale.

Un buon contratto mediocre, buono per chiunque, mediocre per me. A un giornalista illustre frutterebbe la metà, a un inviato normale un decimo, per me sono soldi, e allora forse non espatrio, resto in Etiopia, in Italia, nell'Italia imperiale.

Sono uno scrittore, ci ricavo un compenso buono e mediocre, e poi un libro, buono, buonissimo, un libro sull’Etiopia. Uno scrittore che sparge pagine sull’Etiopia, mi ci vedo, meticoloso, con la sigaretta in bocca, che poggio pagine sul suolo etiopico, al mattino, col fresco, avendole immaginate di notte, poi col sole s’asciugano.  

L’Etiopia di uno scrittore al confino. Uno scrittore è sempre al confino? Non so, è una sparata, ma può essere. 

Devo costruirmi una casa su un’isola, aggettante come una tuffatrice che si prepari al salto, al confino sul mare. 

Sono fedele alla pagina scritta quindi all'impero come espediente retorico, come iperbole, come paradosso.

Se scrivo del mare sono fedele al mare, se scrivo del piroscafo, che porta questi contadini italiani che vanno a colonizzare, sono fedele a questi italiani candidi, e al piroscafo. Sono fedele a seconda dove sono, a che punto sono con lo scrivere.

L'impero bianco nell'Africa nera: storie da scrivere.

Conta più la Storia o le storie da scrivere? La Storia non è un mio libro, non mi porta soldi, scrittore è chi vive di ciò che scrive, altro che Storia. Io scrivo per vivere bene.

Sono sorvegliato anche qui, mi girano intorno: un funzionario di polizia, alto in grado, maggiore della polizia coloniale, e un sottufficiale della squadra politica, tutti e due qui apposta per me, sono costi per l’impero, io sono uno scrittore costoso.

Faccio due conti: da una parte l'impero, dall'altra lo stato, lo stato dell’arte, lo stato dell’arte in Africa. Come sta, l’arte? Cosa vedo se guardo? Vedo pittura europea, russa, avanguardie, surrealismo, vedo case, cavalli, uomini sospesi nell'aria: Chagall.

Una fattoria nel paesaggio, posata sulla sabbia come una poltrona di Dalì. 

Poi, è qui che gli orologi si squagliano a occhio di bue, e le uova e gli orologi si somigliano.

L’architettura imperiale: De Chirico. 

Questi esseri umani, questi paesaggi finiranno nella nuova pittura europea. Nel bianco e nero, nei tagli, nelle combustioni, nelle spaccature, nell’aridità dei cretti, nella merda sepolta sotto la sabbia ermetica, sigillata come in una scatola di latta cocente: surrealismo. Ho detto surrealismo e non mi sbaglio, non faccio confusione, oppure la faccio come la fa il surrealismo. 

La colonizzazione: l’Europa qui attinge meraviglie selvagge, che vuole credere selvagge.

L'aria sembra pelle, coi pori aperti, grassi, mille piccole rughe, ferite, carne viva.

Dico così perché io sono italiano, non sono francese.

Il surrealismo è italiano da sempre, in Francia la faccenda è intellettuale.

In Francia il surrealismo è razionale, è un mezzo — fin troppo opportunista e interessato — per raggiungere un fine politico, sociale, economico. La Francia nazionalizza anche il surrealismo. La Francia ossia il resto del mondo.

Un percorso, quello dal mezzo al fine, che in Machiavelli è tragitto surrealista: ogni cosa scritta è mezzo e fine, non serve a niente ma è scritta in maniera magnifica. È un piacere, e il piacere come risultato non si butta. Cosa ha detto? E che ne so. Quando provi piacere ti chiedi cosa significa? Cos’è? Non sei d’accordo ossia non sei schizzinoso? Siilo. Cos’è? Sei critico? E chi non lo è? È quello che ti tocca, cioè non tocchi niente, non sei che gracchiante, un cornacchietto, ogni tuo cra cra vuol dire che sai tutto. Sai tutto? Capisci come è semplice, sai tutto. Ma non è vero che sai tutto, è così, è così semplice. Sai la deformazione di un sapere, sai quello che ti conviene. Nel piacere si perde la brocca, non si sa nulla, e ci si sperpera in maniera sconveniente. Tu sappi tutto, che ti devo dire? Ma a chi lo sto dicendo? Lo sanno a chi, lo sanno, perché sanno tutto.   

L’Italia è principesca o lo sarebbe. Chi legge è Principessa, ha in mano il mezzo e il fine, e porta il suo momento, il tempo, il suo tempo, storico e personale, alla pagina. “Ma quanto allo esercizio della mente, debbe el principe leggere le istorie”, ecco: il principe legge le istorie, le storie e la Storia.  La Principessa, però, fa di più. La Principessa legge le storie, e porta il suo tempo e la sua storia a accoppiarsi a esse. Tempo, Storia e Principessa in bella mescola. Il Tempo mette le mani avanti, la Storia dietro, la Principessa mette tutta se stessa, legge le storie, poi le racconta, capisce che a inventarsele fa prima. È l’esercizio della mente perché il corpo goda. Sono io la Principessa, Principessa in mille e mille e mille notti italiane. E anche russe e cinesi.

L'Italia è surrealista in ogni secolo.

In Francia il surrealismo è aspetto deforme, aneddoto e parodia. In Italia è forma da sempre.

L'Italia è surrealista in ogni tempo. In ogni tempo, in ogni secolo, l'Italia è surrealista. L'Italia è surrealista in tutto il suo passato.

L'Italia è surreale. Io sono il surrealista. Io sono italiano.

Il surrealismo italiano è ricreazione della realtà, invenzione e interpretazione magica contro la logica e il realismo obiettivo.

Perché l'invenzione crea ciò che esiste non essendo esistito prima. La realtà oggettiva è ciò che crediamo sia esistito, ciò che noi ricostruiamo con gli inevitabili ritardi della logica ma, nel momento in cui viviamo la realtà, non disponiamo che dell’invenzione.

Quindi la realtà noi l’inventiamo, così ci liberiamo dal credere che esista.

Altro che avere opinioni, bisogna avere surrealismo, schizzare fuori dalle ottusità delle opinioni, che sono manie, sempre e soltanto di due tipi: depressive o repressive. E l’umanità se le spartisce, e ci fa queste due palle così. 

La grande letteratura italiana è stata surrealista, è surrealista da sempre. Distinguiamoci, quindi.

Da noi la parola, da sempre, ha inventato la cosa, non l’ha detta.

Non si dicono cose, si dicono astratti, io dico surrealismo, per esempio, e le cose me le invento.

E il surrealismo italiano è finalmente astratta pronuncia della parola libertà, della parola sogno. Poi, si passi all’invenzione. Ma a chi lo sto dicendo?

Ogni paesaggio è magico, e sta alle parole animarlo, le parole stanano l'anima, che è un coniglio, la liberano, e l’anima diventa un leone, compresa la savana, compresa la gazzella, compreso il cielo che è il deserto, con tanti granelli di sabbia di stelle che sono più dei granelli di sabbia, le stelle. E allora tutto è un coniglio con, appresso, un leone, nel deserto, in mezzo alle stelle. Più di Achille e la tartaruga. Il leone non raggiunge il coniglio, ma il leone non si ferma, quindi nemmeno il coniglio.

Le parole stanano l’anima. 

E con anima intendo il surreale.

E tutto questo lo dobbiamo affrontare, lo vogliamo affrontare, senza ragione. La logica è aggiustatrice, è accomodante, noi spezziamo il filo logico.

Come il filo coi denti, attaccando un bottone, questa è l'immagine: il bottone cucito non è che logica, la logica, preda dell’asola. Siamo sartine: attacchiamo bottoni, ci pagano per questo, la clientela poi infila il bottone nell’asola, noi abbiamo solo spezzato il filo dopo aver attaccato il bottone. Sul petto e sulla patta della clientela, che si eccita pure.

Risvegliamo il mondo dalla finzione d'essere un mondo sottomesso a noi, e risvegliamo noi dalla finzione d'essere sottomessi al mondo. 

Creiamo allarme nel mondo, creiamo allarme in noi. Creiamo la presenza: del mondo e nostra in quel momento, creiamo quel momento. Non c’è momento se non ci sei tu.

Il surrealismo è sempre presente. Il tempo del surrealismo è il tempo presente. Il presente è surreale. 

Il surrealismo è rischioso. I surrealisti nel cinema, per esempio, sono troppo surrealisti. Credono di mettere in ridicolo ma sono essi il ridicolo. Che pure ci vuole. Il ridicolo del cinema, il ridicolo della musica. Prendi le canzoni, tu lo sai. Cosa si chiede alle canzoni in cambio dell’indecenza di ascoltarle? Cosa si chiede? Tristezza, una tollerabile tristezza, una tristezza sopportabile.

Il passato è racconto, il futuro è fantasia inattendibile, poi certamente smentita.

In generale, gran parte della scrittura è parodistica, è ‘come’ dire la cosa. E il ‘come’ è parodia. Niente di male se non sai fare di meglio. 

Quando scrivere è, invece, liberare la cosa dal modo di dirla. È una cosa che fa piangere, questa. Ecco che non mi tiro indietro dallo scrivere cose che fanno piangere. Ma come no, io sono lo scrittore più sentimentale che esista. Invento con freddezza anche le lacrime, togliendo di mezzo il come piangere. Intanto che state lì a fare i sensibili al modo e alla moda di dire. 

Il ‘come’ vira l'opera verso l'operetta buffa, niente di male per chi ama il genere e il parassitismo. Essere a favore della causa giusta: i parassiti lo sono, nessun parassita resiste a questo, nessuna muffa cresce sulla parte sbagliata. La causa giusta? Siila, immolati. 

E, se non sei un parassita, ogni guerra, ogni guerra non è ingiusta o senza motivo, ogni guerra non è incomprensibile, ogni guerra non è irragionevole, ogni guerra non può essere rifiutata con comica viltà. Ogni guerra va affrontata, è un cimento.  

Ogni guerra è stupida? È stupida? E tu fai il comico, cioè il vile, che fa le battute su una stupida? Fai la canzone contro la guerra? La fai a favore della pace? Sei un parassita, sei un parodista. 

La guerra è attrito tra surrealismo e realtà. Se non capisci questo, non capisci niente. 

Io, sorvegliato speciale in Etiopia, praticamente prigioniero politico, per scrivere un articolo mi aggregai, disarmato, a un battaglione che andava a sedare rivolte. 

Quando fummo assaliti da alcune migliaia di ribelli, chiesi il permesso di usare il fucile di un ascaro ucciso. Dopo molte obiezioni il permesso mi fu accordato. Mi difesi. 

Per questa azione mi fu riconosciuta la croce di guerra sul campo. Surrealismo. Il calcio del fucile è un ramo d’albero che aveva le foglie, la canna era una vena minerale, la polvere è la stessa dei fuochi artificiali, il piombo è un metallo morbido come la nebbia, l’ascaro quel giorno morì perché io imbracciassi tutto questo, o l’abbracciassi. L’avrei dovuto scrivere. Ma, per essere attendibile, l’articolo me lo inventai dopo. 

Quando partii, Mussolini disse di me: 

"Quello lì è capace di mettersi a capo di qualche banda ribelle per conquistare l’Italia". 

Parlava dello scrittore, e non se ne rendeva conto. Nemmeno io. Nessuno se ne è reso conto. 

Ma l’Italia è surrealista e anch’io lo sono, sono presente. 

Menomale che siamo solo in due, perché, sai, io bramo la moltiplicazione delle copie dei miei libri ma, una volta venduti nella realtà, vorrei perdere sempre più lettori nella surrealtà, poi le lettrici, fino a che ne restano poche, poi una sola,  e con lei celebrerei il successo surreale nel reale. Solo che tu sei un uomo e per di più ti fingi cantante, che non sei. Però insieme possiamo fumare. Parole e fumo, stai facendo cantare me, eh?

La cosa per me più schifosa? Ricevere un riconoscimento, una riconoscenza affettata, da salame stagionato, in memoria. Premiassero loro stessi in memoria, a memoria, a pappardella. 

Ho repulsione di chi non mi riconosce, ho repulsione di chi mi riconosce.

L’hai scritta, poi, la canzone su quello che ti ho raccontato ieri? Ah, l’hai scritta? Sulla guerra? Cioè formiche e farfalle, formiche rosse e farfalle nere? Bene, fammela sentire. È costosa, sì? Bene, questo è importante. Sentiamo. »