Decollavamo spesso

29.12.2017 00:58
Decollavamo spesso, a bordo di un aereo leggero leggero di tela e legno, dal balcone. L’aereo oscillava sulla ringhiera, col muso nel vuoto e con l’elica sul muso da cane che fiuta una nuvola cangiante di storni. Noi spingevamo il nostro peso in avanti come su un’altalena squilibrata, e l’aereo cadeva in picchiata. Prima che toccasse terra dovevamo riuscire a risalire e prendere quota. Ci riuscimmo sempre, tranne la volta che perdemmo la cabrata contro un muro di vento, uno scirocco sabbioso, e fummo costretti a atterrare sulla strada, avendo portato l’aereo parallelo al suolo poco prima dell’impatto, meno male. Strusciammo sull’asfalto come una cassetta con dentro un motore da ventilatore e costumi teatrali: i nostri foulard da aviatore, il nostro abbigliamento da volo, gli impermeabili con la cinta annodata stretta, i baveri larghi come ali minori. 
Solo quella volta si accorsero che noi volavamo, quella volta che non volammo cioè non sparimmo nel cielo. Credettero tutti che provenissimo da un posto distante e forse da un tempo lontano. Di più si stupirono quando uscimmo fuori dalla carlinga truccati da piloti antiquati e, tolti gli occhialoni, i caschetti, i foulard, gli impermeabili, ci videro così ragazzini. A lei si sciolsero i capelli e lo scirocco li mosse, i suoi capelli dal colore di mobile scuro in palissandro fiammato, e io ero alle sue spalle. Ho questo ricordo di lei di spalle, più forte di ogni ricordo di lei di fronte: i suoi capelli, che avrei rivisto più volte, mossi, nell’immobilità del ricordo. Sì, è immobile il ricordo. Se si muove è solo per essere ripetitivo, gira, non viene avanti, non ti raggiunge, sta là. 
Al tempo di questi voli segreti, la sua famiglia - le famiglie emanano leggi tremende - traslocò. Me la portarono via. Sono rimasto alle sue spalle per sempre con, per sempre, i suoi capelli scossi davanti a me, perché il ricordo è uno sguardo attonito, fisso e senza frasi se non le più stupide per raccontare quello che vedi. Oppure devi metterti a scrivere per aggiungere frasi un po’ più sapienti. Ma a che serve? A niente. Rischi solo di essere letto.
Da adolescenti il problema non si pose quando noi due fummo gente dell’aria.
Ma anche delle caverne. E anche delle piramidi.
Lei era svogliata a scuola come me e in lei spiccava la stessa mia vocazione all’analfabetismo ossia a vivere tutti e due da subito insieme per sempre come quando ci infilammo in un cunicolo e la nostra sparizione dalla faccia della terra durò parecchio. Fummo la faraonessa e il faraone non però millenari perché tornando all’aria non ci polverizzammo. 
Mi devo fermare. Ho finito le virgole.
 

Decollavamo spesso, a bordo di un aereo leggero leggero di tela e legno, dal balcone. L’aereo oscillava sulla ringhiera, col muso nel vuoto e con l’elica sul muso da cane che fiuta una nuvola cangiante di storni. Noi spingevamo il nostro peso in avanti come su un’altalena squilibrata, e l’aereo cadeva in picchiata. Prima che toccasse terra dovevamo riuscire a risalire e prendere quota. Ci riuscimmo sempre, tranne la volta che perdemmo la cabrata contro un muro di vento, uno scirocco sabbioso, e fummo costretti a atterrare sulla strada, avendo portato l’aereo parallelo al suolo poco prima dell’impatto, meno male. Strusciammo sull’asfalto come una cassetta con dentro un motore da ventilatore e costumi teatrali: i nostri foulard da aviatore, il nostro abbigliamento da volo, gli impermeabili con la cinta annodata stretta, i baveri larghi come ali minori. 

Solo quella volta si accorsero che noi volavamo, quella volta che non volammo cioè non sparimmo nel cielo. Credettero tutti che provenissimo da un posto distante e forse da un tempo lontano. Di più si stupirono quando uscimmo fuori dalla carlinga truccati da piloti antiquati e, tolti gli occhialoni, i caschetti, i foulard, gli impermeabili, ci videro così ragazzini. A lei si sciolsero i capelli e lo scirocco li mosse, i suoi capelli dal colore di mobile scuro in palissandro fiammato, e io ero alle sue spalle. Ho questo ricordo di lei di spalle, più forte di ogni ricordo di lei di fronte: i suoi capelli, che avrei rivisto più volte, mossi, nell’immobilità del ricordo. Sì, è immobile il ricordo. Se si muove è solo per essere ripetitivo, gira come una girandola, non viene avanti, non ti raggiunge, sta là. 

Al tempo di questi voli segreti, la sua famiglia - le famiglie emanano leggi tremende - traslocò. Me la portarono via. Sono rimasto alle sue spalle per sempre con, per sempre, i suoi capelli scossi davanti a me, perché il ricordo è uno sguardo attonito, fisso e senza frasi se non le più stupide per raccontare quello che vedi. Oppure devi metterti a scrivere per aggiungere frasi un po’ più sapienti. Ma a che serve? A niente. Rischi solo di essere letto.

Da adolescenti il problema non si pose quando noi due fummo gente dell’aria.

Ma anche delle caverne. E anche delle piramidi.

Lei era svogliata a scuola come me e in lei spiccava la stessa mia vocazione all’analfabetismo ossia a vivere tutti e due da subito insieme per sempre come quando ci infilammo in un cunicolo e la nostra sparizione dalla faccia della terra durò parecchio. Fummo la faraonessa e il faraone non però millenari perché tornando all’aria non ci polverizzammo. 

Mi devo fermare. Ho finito le virgole.

 

(da “Memorie d’aria” - Confessioni per fare la storia)

(da “Memorie d’aria” - Confessioni per fare la storia)Decollavamo spesso, a bordo di un aereo leggero leggero di tela e legno, dal balcone. L’aereo oscillava sulla ringhiera, col muso nel vuoto e con l’elica sul muso da cane che fiuta una nuvola cangiante di storni. Noi spingevamo il nostro peso in avanti come su un’altalena squilibrata, e l’aereo cadeva in picchiata. Prima che toccasse terra dovevamo riuscire a risalire e prendere quota. Ci riuscimmo sempre, tranne la volta che perdemmo la cabrata contro un muro di vento, uno scirocco sabbioso, e fummo costretti a atterrare sulla strada, avendo portato l’aereo parallelo al suolo poco prima dell’impatto, meno male. Strusciammo sull’asfalto come una cassetta con dentro un motore da ventilatore e costumi teatrali: i nostri foulard da aviatore, il nostro abbigliamento da volo, gli impermeabili con la cinta annodata stretta, i baveri larghi come ali minori.
Solo quella volta si accorsero che noi volavamo, quella volta che non volammo cioè non sparimmo nel cielo. Credettero tutti che provenissimo da un posto distante e forse da un tempo lontano. Di più si stupirono quando uscimmo fuori dalla carlinga truccati da piloti antiquati e, tolti gli occhialoni, i caschetti, i foulard, gli impermeabili, ci videro così ragazzini. A lei si sciolsero i capelli e lo scirocco li mosse, i suoi capelli dal colore di mobile scuro in palissandro fiammato, e io ero alle sue spalle. Ho questo ricordo di lei di spalle, più forte di ogni ricordo di lei di fronte: i suoi capelli, che avrei rivisto più volte, mossi, nell’immobilità del ricordo. Sì, è immobile il ricordo. Se si muove è solo per essere ripetitivo, gira, non viene avanti, non ti raggiunge, sta là. 
Al tempo di questi voli segreti, la sua famiglia - le famiglie emanano leggi tremende - traslocò. Me la portarono via. Sono rimasto alle sue spalle per sempre con, per sempre, i suoi capelli scossi davanti a me, perché il ricordo è uno sguardo attonito, fisso e senza frasi se non le più stupide per raccontare quello che vedi. Oppure devi metterti a scrivere per aggiungere frasi un po’ più sapienti. Ma a che serve? A niente. Rischi solo di essere letto.
Da adolescenti il problema non si pose quando noi due fummo gente dell’aria.
Ma anche delle caverne. E anche delle piramidi.
Lei era svogliata a scuola come me e in lei spiccava la stessa mia vocazione all’analfabetismo ossia a vivere tutti e due da subito insieme per sempre come quando ci infilammo in un cunicolo e la nostra sparizione dalla faccia della terra durò parecchio. Fummo la faraonessa e il faraone non però millenari perché tornando all’aria non ci polverizzammo. 
Mi devo fermare. Ho finito le virgole.
 
(da “Memorie d’aria” - Confessioni per fare la storia)Decollavamo spesso, a bordo di un aereo leggero leggero di tela e legno, dal balcone. L’aereo oscillava sulla ringhiera, col muso nel vuoto e con l’elica sul muso da cane che fiuta una nuvola cangiante di storni. Noi spingevamo il nostro peso in avanti come su un’altalena squilibrata, e l’aereo cadeva in picchiata. Prima che toccasse terra dovevamo riuscire a risalire e prendere quota. Ci riuscimmo sempre, tranne la volta che perdemmo la cabrata contro un muro di vento, uno scirocco sabbioso, e fummo costretti a atterrare sulla strada, avendo portato l’aereo parallelo al suolo poco prima dell’impatto, meno male. Strusciammo sull’asfalto come una cassetta con dentro un motore da ventilatore e costumi teatrali: i nostri foulard da aviatore, il nostro abbigliamento da volo, gli impermeabili con la cinta annodata stretta, i baveri larghi come ali minori.
Solo quella volta si accorsero che noi volavamo, quella volta che non volammo cioè non sparimmo nel cielo. Credettero tutti che provenissimo da un posto distante e forse da un tempo lontano. Di più si stupirono quando uscimmo fuori dalla carlinga truccati da piloti antiquati e, tolti gli occhialoni, i caschetti, i foulard, gli impermeabili, ci videro così ragazzini. A lei si sciolsero i capelli e lo scirocco li mosse, i suoi capelli dal colore di mobile scuro in palissandro fiammato, e io ero alle sue spalle. Ho questo ricordo di lei di spalle, più forte di ogni ricordo di lei di fronte: i suoi capelli, che avrei rivisto più volte, mossi, nell’immobilità del ricordo. Sì, è immobile il ricordo. Se si muove è solo per essere ripetitivo, gira, non viene avanti, non ti raggiunge, sta là. 
Al tempo di questi voli segreti, la sua famiglia - le famiglie emanano leggi tremende - traslocò. Me la portarono via. Sono rimasto alle sue spalle per sempre con, per sempre, i suoi capelli scossi davanti a me, perché il ricordo è uno sguardo attonito, fisso e senza frasi se non le più stupide per raccontare quello che vedi. Oppure devi metterti a scrivere per aggiungere frasi un po’ più sapienti. Ma a che serve? A niente. Rischi solo di essere letto.
Da adolescenti il problema non si pose quando noi due fummo gente dell’aria.
Ma anche delle caverne. E anche delle piramidi.
Lei era svogliata a scuola come me e in lei spiccava la stessa mia vocazione all’analfabetismo ossia a vivere tutti e due da subito insieme per sempre come quando ci infilammo in un cunicolo e la nostra sparizione dalla faccia della terra durò parecchio. Fummo la faraonessa e il faraone non però millenari perché tornando all’aria non ci polverizzammo. 
Mi devo fermare. Ho finito le virgole.
 
(da “Memorie d’aria” - Confessioni per fare la storia)