Come si fa
“Come si fa a non conoscere così la vita? Allora cosa sento? Sento questi miti parassiti della benevolenza, del consenso e dell’approvazione fare il pianto greco tutto da ridere, e il rutto infantile da compiacimento, lo squittio, il rigurgito di una lattea, inacidita coscienza. Quale è il problema? L’atto colpevole, il lato colpevole, che essi deplorano e condannano, come code che guaiscono, pestate. Sanno tutto, queste anime terse, hanno in sé un messia, una peretta al contrario che soffia da dentro. Siamo qui per imparare e loro insegnano a pompate di esoclismi. Atterriti dal mondo, cosa vedono a colpi d’occhi dalle ciglia piumate? Disumanità, bruttezza, barbarie, vedono cattivi soggetti, spietatezza, appunto atti colpevoli, crudeli. E l’occhio lacrima. E ci mettono la pezza del loro piagnisteo in versi, in prosa, a sguazzo acrilico, a gocciole, a olio, a glicerina, evacuano il supposto immaginario e curativo perché, direttamente dal loro buco, l’immaginario supposto penetri il buco del mondo e lo migliori. Perché, al mondo, come è difficile essere buoni, dicono. Cioè, i buoni, i migliori, le belle anime in supposta salgono su per il culo in cattedra e da lì ci squagliano il lamento: come è difficile essere buoni al mondo. Come si fa a non conoscere così la vita? Se non si capisce la difficoltà d’esser cattivo, non si capisce nulla della vita. Nulla, se non si comprende la difficoltà d’esser mostruoso (altro che lassativi e camomille etimologiche che giocano col mostro e col mostrarsi). È difficile essere terribile e feroce, questo è difficile, è cosa tosta, e non sto parlando del vile scatto di un nervo, di due, di un mazzetto di nervi a reazione, ossia della rabbia isterica dei buoni. Sto parlando del freddo e della calma, di sangue gelido e di nervi glaciali. Anche di quella capacità di contenersi in un desertico silenzio artico, di quel candore sto parlando, sì, del freddissimo candore, solitario, come la sfiducia abbacinante e sola. E non è astio, anzi. L’astio è di chi fa della bontà la propria correttezza da ostentare, l’astio è questo conveniente opportunismo: far piangere, a staffilate di bontà posticcia sulle guance, chignon di lacrime che scendono dagli occhi come il cavaturaccioli nel tappo.
Così i buoni, sospettosi e quindi previdenti, vedono ovunque lame affilate di ghiaccio ansiose di tiepidi petti, perché vista così la cosa è assai spettacolosa e di successo. Coi loro occhietti da sotto il tappeto, li vedono. E ancora più sotto il tappeto, tra le dita tremule contro ventri molli molli di molle gelatina contano gli spiccioli dell’elogio, della lode e del plauso, che come sputi di moneta i buoni si lanciano a vicenda: piccole creste, e prestiti a usura di bontà, il conto del tornaconto, il frutto del lisciamento e dello slinguamento. E il cattivo si incattivisce ancora di più davanti a tanta miseria del mite umano, però avveduto, però contabile, perché la presunzione di bontà è tanta al mondo, l’investimento è tanto e a alto rendimento, è tanta la buona volontà spettacolare, che garantisce prese di beneficio a tassi altissimi di strozzo e nodo in gola. Altro che la difficoltà d’essere buoni. Essere cattivi è più difficile, a tassi a picco e a rischio altissimo in abisso”.
Questa, mentre canto, non avendo niente da fare, è la parafrasi a mente, ma anche la perifrasi, il giro di parole, la circonlocuzione della canzone che sto cantando (il testo delle belle canzoni consta di una parola sola). Mi distraggo così. Cantare bene è cantare bene. Cantare meglio è distrarsi dal cantare.