Sorellina

06.03.2016 01:30

Periferia romana, fine anni 50 del novecento
(Da oggi scriverò senza correggere, quello che conta è il ritmo di battuta, costante, sui tasti, senza fermarmi. Ho la macchina da scrivere, la macchina per scrivere, comprata a Porta Portese)

 

Ero poco più grande di lei, avevo, che potevo avere?, una decina d’anni, era sera. La mia sorellina era uscita, era andata a prendere il latte alla latteria non tanto distante. Sempre, al ritorno, sollevava a metà il tappo di stagnola e beveva dalla bottiglia abbracciata qualche sorso di latte, continuando a camminare. La mia sorellina non tornava, quella sera. Esco per andarle incontro. Passo per le vie interne tra case simili, in questo grande accampamento di palazzi, che pare quello delle legioni romane spiegate a scuola. Torno torno c’è un muretto popolare e una recinzione in grigliato. Esco dal cancello, uno dei tanti di questo comprensorio, il cancello dà sulla via che porta alla latteria dopo una curva in fondo. Prima della curva c’è uno slargo, una piazza. Vedo luci azzurre di pantere, le volanti, la polizia. Arrivo in piazza, c’è gente, che si dice? Si dice che un tizio fa il pazzo, s’è messo a camminare a culo per terra, così si dice, lo dice uno che fa anche l’esempio con le braccia come se remasse ma senza remi e con i pugni chiusi un po’ troppo vicini al viso, si accovaccia e dice che saltava così, da circo, il mezzo matto, con una pistola in un pugno e nell’altro una fotografia che non s’è capito di chi o di che, forse una cartolina d’addio. Poi si è stancato di remare e ha cominciato a fare il giro della piazza a mano armata, chiamando fuori qualcuno dai negozi e dai portoni per affrontarlo in un duello da cinema di pistoleri. Cerco la mia sorellina, non la vedo, non la trovo. Poi scoppia uno sparo e tutti scappano, la polizia apre le portiere delle pantere e le usa come ripari. Corro anch’io perché ho fretta. Lo slargo si stringe come il becco di un pappagallo, curvando, e diventa la strada che porta, in fondo, alla latteria. Un ragazzino più piccolo di me, con la faccia del piangere, anche lui corre ma non sa correre, corre coi piedi divaricati come chi è abituato ancora a essere tenuto per mano, ma è solo. Gli strillo: stammi appresso. Se mi segue lo porto a traino fino al sicuro e gli dico di restare lì, protetto. Mi sta appresso, ma un altro tipo ci insegue, ce l’ho nella coda dell’occhio, corre a braccia aperte verso di noi, in obliquo, allo scoperto, sembra annaspare in mezzo alle mosche, o le scaccia o le vuole prendere. Deve essere il padre del ragazzino, nel migliore dei casi. Non mi fermo, proseguo ma col viso un po’ voltato all’indietro per accertarmi: l’uomo ha raggiunto il ragazzino che si aggrappa alla sua cinta, l’uomo lo solleva con il braccio, un gancio di gru che solleva un capretto, è il padre, gruista, sicuro, svicolano in una stradetta di lato, vedo che lo depone, lo prende per mano, ma prima, addirittura, sempre con la mano lo ha pettinato, se ne vanno o me ne sto andando io più veloce, e già un muro li copre; sanno che una donna li rimprovererà quando racconteranno l’avventura, e farà bene: questo gruista smarrisce il bambino tra botte e spari. Prima lo sparo e adesso, infatti, volano botte in piazza, sento strilli di colluttazione. Prendo la strada della latteria, mi lascio alle spalle un cane che abbaia, sirene, sbattere di portiere, sgommate, sgasate, luci azzurre che rimbalzano sui palazzi. Lo spettacolo è finito, forse sì, non me ne importa niente. La mia sorellina non la vedo, né per strada né vicino alla latteria né dentro, guardo meglio, non la vedo, faccio un giro nel locale, come se continuassi a camminare per strada: le maioliche bianche, il banco di marmo, il lattaio, anche lui levigato, l’odore di straccio bagnato nel latte, il tabellone verde dei risultati di calcio, niente sorella, esco. Dove vado? Torno indietro. La piazza è sgombra, tranquilla, una piazza di sera, nient’altro, la guardo tutta per vedere se c’è mia sorella. Non c’è. C’è un ombrello per terra, di nessuno. Lo prendo. Ha uno spicchio di stoffa che pende come l’orecchio di un cane dalle orecchie pendenti. Ma oggi non è una giornata di pioggia. Lo prendo lo stesso, un ombrello è fedele. Guardo la strada che porta a casa, mia sorella non appare. Farò un altro percorso, come un cavallo tirato mi volto di collo e di tutto, anche con un piccolo salto di decisione presa, farò un giro ampio, che avrà come centro la cerchia del muretto con sopra il grigliato, devo fare il punto nella mente perché ormai la recinzione non è più a vista, cammino tra palazzi diversi. Poi, quando vorrò, per tornare a casa, farò cerchi a stringere, a spirale. E così faccio, farò così. Più cammino, più il percorso si allunga, così mi pare, e comincia a pesare, me ne accorgo perché camminando mi piego in avanti e, anche se cammino svelto, mi sembra di non arrivare, nemmeno so dove. Forse mi sto allontanando parecchio. Perché? Per istinto. Perché forse la mia sorellina s’è persa e allora faccio in modo di perdermi anch’io, così la ritrovo perduta. Intanto, ci sono riuscito, mi sono perso. Non conosco bene il quartiere, ci abito, ci dormo ma soprattutto da qui prendo il tram per andare in altri posti. C’è una strada in salita, con alberi, un albero è troppo vicino al muro di un palazzo, e dall’altro lato del tronco una macchina è in sosta con il muso a contatto dell’albero come quello di un somaro incantato dai disegni della corteccia, devo passare di taglio, le spalle al muro, il petto contro il tronco, ci passo, questa cosa mi demoralizza, sento la stanchezza tutta assieme. Raggiungo una signora anziana che mi cammina davanti e quando l’affianco non riesco a superarla, fin lì camminavo più svelto di lei, da lì non più. Per come le sento e per come me le figuro, le mie gambe somigliano allo spicchio dell’ombrello, le sento flosce e me le figuro come le orecchie di un cane bassethound che conosco: gli arrivano a terra ma non lo tengono in piedi, sventolano. Cammino come avessi due ventagli al posto delle gambe, inadatti come puntelli e assai instabili, altro che ali ai piedi, altro che spinto dal vento, il contrario. Lo spicchio cascante dell’ombrello, le gambe, ah, ecco, ho l’ombrello. Devo ridurmi a questo, lo uso come una pertica, sono una barca a fondo piatto su una palude, mi spingo puntando l’ombrello sul marciapiede. La signora è sparita in un portone. Ho aggirato tutto il quartiere, sono nel circondario, e il circondario è una enorme teoria, anche nel senso dei giri che sto facendo, mi sono perso, sto conoscendo l’avvilimento, ho il pensiero di mia sorella, e questo pensiero sta diventando più concreto di lei, cupo, mentre lei in carne e ossa sarebbe raggiante se la vedessi. A un certo punto, in tutt’altra direzione di quella dove credevo fosse, vedo la nebbia grigia, strisciante, del grigliato lontano, che mi appare come una svista, però è il grigliato, lo riconosco, in fondo a una strada obliqua, la prendo. Raggiungo il confine del comprensorio, c’è un cancello, entro, sono nel comprensorio ma dalla parte opposta; se la mia casa è a sud, per dire, qui sono a nord. È tutto diverso qui, c’è un prato, una specie di altopiano, lo percorro, vado avanti, c’è un pendio, scendo da questa collina, il terreno è più ripido di quanto l’ho battezzato a occhio e alla fine, senza volere, devo correre a salti, sghembo, per non cadere, poi tocco il terreno in piano, i passi si fermano quando vogliono loro. Ho rischiato di lasciare qualche piede sul ripido. A momenti vado a finire in un un orto, un orto?, un orto, sì, è un orto, con le cannucce a piramide per i fagiolini, con tutte le insalate in fila, la riccia, la liscia e quella da taglio, un bell’orto da dopolavoro, da nevrastenico che ha bisogno di calmarsi. Sulla spianata c’è gente all’aperto, in piedi e sulle sdraio, cucinano sui fuochi. Vedo anche un recinto con dentro una scrofa scura e i maialini, non avrei mai immaginato, ma vedo anche le file delle case davanti a me, e chissenefrega dei porcellini e della maiala. Adesso cerco casa mia, passo in mezzo ai fabbricati facendo percorsi, e più larghi e più stretti, sterrati o mattonati o asfaltati, anche vialetti con le siepi dall’odore amaro, non mi raccapezzo, poi sì, per farla breve, ma non è stata una ricerca breve, sono al limite della cognizione delle cose. Vedo casa mia, mi fa un effetto di commozione. Arranco, mi appoggio a tutti i muri, raggiungo lo scalone esterno, ampio, la scalea coi gradini di legno, perché nel frattempo la mia casa a pianoterra s’è sopraelevata, non mi pareva così su di tono, quasi una villa, non ricordo nemmeno lo scalone, nemmeno per sogno, ma subito l’accetto perché devo arrivare, fatico a salire. Appare mia sorella in cima, non solo è tornata ma è pure cresciuta. È lei, con i baffi del latte sotto il naso. La commozione mi sale fino al viso. Le mie gambe non ce la fanno a tenermi in piedi, punto l’ombrello ma non è come sulla palude, è come sul mare coi gradini agitati, non mi funziona, mi devo sedere sul gradino che ho raggiunto, devo salire quelli che restano, li risalgo da seduto, all’indietro; a ogni gradino siedo sempre più in alto, e così arrivo all’ultimo, e a questo punto non mi siedo più ma mi distendo all’indietro, sulla schiena, la testa sul pianerottolo, le gambe in discesa, allargo le braccia. Così sfatto e sfinito, sbracato, vedo mia madre al contrario, dietro di me, sulla porta, la vedo sforzando talmente gli occhi oltre la fronte che vedo anche un po’ dei miei capelli. E dico: sono stanco, mamma, sono stanco. Le lacrime mi escono da sole e prendono le vie delle tempie, si raccolgono sul dietro del collo come un complotto del piangere, e io sono preda della loro dolcezza che mi trafigge la nuca fino alla gola. Se fossi un toro, sarei morto. Sento che l’ombrello, lasciato andare dalla mano del torero, sta discendendo tutti i gradini dell’arena, scivolando, avvantaggiato dalla stoffa rossa che oppone poco attrito, la muleta di seta. Non ho mai avuto una sorella in vita mia.